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Il Disturbo da Attacco di Panico

Il Disturbo da Attacco di Panico (DAP) appartiene alla categoria dei disturbi d’ansia.

Solitamente sopravviene in modo inaspettato, e consiste nella comparsa improvvisa di paura e disagio: si teme di venir meno, di essere in procinto di morire o di perdere le facoltà mentali, cioè il controllo.
Il Disturbo da Attacco di Panico che si accompagna ad affanno, palpitazioni, tremore, vertigini, sudorazione (citando i sintomi più comuni), si risolve nello spazio di qualche minuto o di poche ore. Il 60% degli interventi urgenti effettuati dalla Guardia Medica o dall’Unità Coronarica riguarda frequentemente questo genere di patologia.

Molto spesso il DAP è ricorrente. In tal modo s’instaura uno “stato di attesa”: la cosiddetta ansia anticipatoria, nella quale la persona da un lato è preoccupata e timorosa del ripetersi della crisi, dall’altro tende a modificare il suo comportamento in modo disadattivo. Per esempio prova paura a tornare nel luogo nel quale si è sentita male la prima volta: ne nasce così una sindrome fobica, che rappresenta un vano, disperato quanto inutile tentativo di difesa. La vita sociale tende ad impoverirsi in quanto gli attacchi di panico si riducono soltanto al prezzo di un moltiplicarsi di evitamenti, ossia mediante l’autoallontanamento da quelle occasioni di relazione che potrebbere creare ansia.

Le donne sono colpite più spesso da questo disturbo rispetto agli uomini, con un rapporto di circa 2 : 1. L’età media di insorgenza del DAP è di 20/24 anni. Se il disturbo non viene trattato, il decorso è solitamente cronico.
La presenza del DAP è elevata nelle persone con altri disturbi, in particolare disturbi d’ansia o depressione.

Per quanto riguarda l’intervento terapeutico, è evidente che debba essere sempre legato ad una corretta diagnosi. Tale intervento può essere prettamente psicologico, psico-farmacologico o misto. Nondimeno, nell’esperienza che ho maturato nella mia pratica clinica, l’uso degli psicofarmaci (antidepressivi e/o benzodiazepine) dev’essere ovviamente di competenza medica e non certo “fai da te”; e naturalmente la sommistrazione deve venire commisurata e limitata nel tempo. Le terapie ad orientamento analitico sono da intendersi, a mio avviso, le più efficaci: se, infatti, la persona comprende l’importanza di affrontare le sue problematiche ed accetta un percorso di tipo psicologico, le crisi in genere tendono a scomparire. Va da sé che, nel caso di terapia mista, è sempre fondamentale la collaborazione tra Medico e Psicologo.


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Curare la balbuzie col “feedback”

“Feedback”. Un termine inglese e internazionale al tempo stesso, che assume diverse accezione a seconda del campo di impiego. In Psicoterapia, “Feedback” non è soltanto il nome di una tecnica psicoterapeutica nata alla fine del secolo scorso, ma anche quello di un apparecchio rivoluzionario: uno strumento così sofisticato da consentire al paziente affetto da balbuzie di parlare perfettamente, fin dalla prima seduta.

Come funziona il Feedback?
Due cuffie vengono collegate ad un laringofono, il cui piccolo microfono viene appoggiato alla laringe: appena il paziente inizia a parlare, in cuffia giunge un white noise, un rumore bianco, che impedisce al paziente di sentirsi, di ascoltarsi, e di conseguenza blocca il “feedback negativo”: chi non si sente, infatti, non può balbettare.
Ciò, dal punto di vista psicologico, sortisce un impatto straordinario sul paziente, che nel rivedersi in video registrato leggere un brano balbettando (senza apparecchio) e in modo esente dal difetto (utilizzando il Feedback), ne ricava fin da subito grandi stimoli. In sostanza il paziente si rende immediatamente conto, con i propri occhi e le proprie orecchie, di non essere affetto da alcun problema organico, convincendosi in fretta di poter imparare a parlare bene. E’ il primo passo verso l’assoluta e rapida guarigione da balbuzie.


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